Tuesday, February 17, 2009

Datemi una corda e .. costruirò. Costruzione, Etica, Geometria e Information Technology


Dall'arco al compasso, dalla sezione aurea al logaritmo, dalla geometria operativa di Borromini sino a Louis Kahn, da Jørn Utzon sino ai nuovi architetti informatici, dalla necessità etica della costruzione al Rural studio, questo saggio propone un intreccio fitto di temi. Tiene insieme la scrittura l’attenzione allo strumento, inteso come “materializzazione dello spirito” (Koyré), come tensione che trova proprio nella costruzione dell'architettura un momento di interrogazione delle proprie potenzialità.


E' uscito al prezzo di € 6.95 per copia o 2.50 per il pdf l'atteso nuovo libro sul tema dello strumento.  >>>

Sunday, February 15, 2009

Onde di pietra


prefazione di Antonino Saggio a
Cyberstone di C. Pongratz e M. Perbellini
La rivoluzione informatica in architettura, Edilstampa 2009

Read in (rough) English

Nei primi anni di affermazione dell’architettura meccanica e funzionale
si pensava che i nuovi materiali – il ferro, il vetro, il cemento
armato, l’intonaco – fossero ingredienti indispensabili all’affermazione
dei contenuti igienici, razionali ed espressivi della nuova
architettura. Ma già alla metà degli anni Trenta del Novecento, gli
architetti cominciarono a capire che non era il materiale la vera
chiave di volta di un approccio nuovo. Un materiale o una tecnologia,
anche se appena inventata, può essere usata in maniera
aberrante (gli architetti passatisti avevano cominciato ad usare il
cemento armato, ma vi applicavano sopra strati di apparecchiature
decorative), mentre, al contrario, anche un materiale antico
può essere usato in maniera niente affatto scontata: i nuovi architetti
cominciavano a capire infatti come materiali tradizionali potevano
essere adoperati in una logica espressiva e costruttiva contemporanea.
Giuseppe Terragni usava i marmi di rivestimento, Frank Llyod
Wright la pietra da taglio, Gropius il legno, Aalto il mattone. Si
cominciò a capire allora che il colore, il comfort, le stesse proprietà
naturali di deformazione, di assorbimento, di traspirazione
dei materiali naturali erano altrettanto utili di quelli industriali per
affermare i valori complessivi della nuova architettura. Insomma
la chiave, come sempre, sta “nel come”.

Cominciando ormai gli architetti in questi nostri primi anni Duemila,
a vivere le conquiste espressive, processuali e ideative della
Rivoluzione informatica, è iniziato anche il tempo di affrontare
l’uso, proprio all’interno del mondo digitale, del più antico e duraturo
dei materiali. Quello che ha segnato la costruzione dei templi
greci, delle piramidi, dei monumenti romani classici: appunto, la
pietra. E così come gli architetti funzionalisti avevano capito al loro
tempo, anche gli architetti più avvertiti di oggi sanno che il materiale
in quanto tale è inerte. Esso vive solo quando è proiezione
di un desiderio progettuale.
Dentro la pietra vi sono mille forme ed usi possibili ed è solo per
pigrizia che si fa affidamento alle vecchie forme e logiche.
Così, sfogliando questo libro, il lettore scoprirà con stupore e con
autentico piacere, mi auguro, che addirittura il materiale lapideo
può essere impiegato con una logica e una sensibilità digitale.
Scrivono Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini che, per
esempio, “il mattone è divenuto un materiale Informatizzato” e
che un muro può essere caratterizzato dalla posizione e dall’orientamento
sempre differenziati di ciascuna unità, per controllare
trasparenza o la trasmissione di luce. Il risultato è un muro che diventa
“un vettore informatico, soggetto a regole matematicamente
comprensibili”. Un muro programmato.
In questo caso gli autori discutono del prodigioso uso di un Robot
per realizzare un muro in mattoni, con una macchina guidata e
programmata via software che non solo dispone i mattoni in maniera
oltre che efficiente anche mutabile ed armoniosa, ma addirittura
che è programmata per l’inserimento della malta tra uno e
l’altro in maniera ogni volta diversa. Un muro di questo tipo ha
proprietà estetiche, pratiche e funzionali veramente elevate e diventa
tendenzialmente anche più economico e più funzionale di
uno tradizionale (come l’esperienza dei due architetti Gramazio
& Kohler dimostra).

Questo libro però non affronta solo gli esempi che hanno a che vedere
con montaggi guidati da una logica digitale di materiali che
hanno una modularità paragonabile al mattone (tessere di pietra
di dimensioni variabili, listelli di marmo, mattoni in laterizio o cemento
eccetera), ma affonda l’analisi proprio sull’uso della vera e
propria pietra da taglio e dei marmi usati quindi in grandi superfici
continue.
Gli autori parlano di “sovvertimento di una vita litica apparente”.
Vuol dire: “e perché mai il marmo e le pietre da taglio devono essere
usati in una logica statica, simmetrica, neo-monumentale e
neo-classica? È forse scritto nel Dna di questi materiali che essi
devono servire a creare edifici statici, pesanti e accademici?”. “Ad
una solidità familiare, nota e rassicurante – aggiungono – lo stesso
materiale risponde a translucenze, a trasparenze lievi, a leggerezze
da sfiorare. I processi della progettazione che si avvalgono di
modalità che derivano dalla tecnologia digitale, si nutrono di sperimentazioni
che arrivano a definire impensabili gamme comportamentali
e espressive dei materiali scelti.”

Sulla base di queste premesse i molti esempi presenti nel libro sono
organizzati in quattro capitoli. Il primo affronta il tema della
“Innovazione litica” cioè l’uso della pietra in progetti che aderiscono
ad una sensibilità contemporanea ed hanno alcuni aspetti
innovativi nelle metodologie di progettazione o esecuzione. Segue
il capitolo sul “Surface design” e cioè la presenza del grande tema
della pixellizzazione superficiale delle pareti che, come si sa, è un
motivo della ricerca espressiva di questi anni e che ha ricadute
molto interessanti proprio nell’uso della pietra, poi il capitolo delle
“Superfici modulate” rese effettivamente vibranti anche attraverso
programmi informatici che richiamano il grande motivo della
frattalità e infine il capitolo “In profondità o con leggerezza”
che basandosi sul lavoro di architetti della rilevanza di Renzo Piano
o Kenzo Kuma fa comprendere tutta intera la complessità del
tema.

Ora bisogna dire con chiarezza che tra gli architetti più sensibili ad
un uso digitale del materiale lapideo, vi sono gli autori stessi di
questo libro che danno più prove del loro talento e del livello della
loro ricerca sperimentale.
Antonello Marotta, che i lettori di questa collana ben conoscono,
scrive su “On&Off” (cfr. “Pongratz-Perbellini” in L’architetto italiano
n. 19) che con la serie Hyperwave – caratterizzata dalla modellazione
di superfici di pietra attraverso algoritmi ed equazioni
differenziali che guidano macchine a controllo numerico – l’esperienza
“da un piano compositivo e spaziale viene spostata su uno
di tipo percettivo e sensoriale. La superficie, nella loro filosofia,
diventa una materia in grado di ritornare ad essere allusiva, sinuosa,
seduttiva, emozionale. (...) Non è un caso che il virtuale abbia
recuperato il mondo delle forme dinamiche, fluide, articolate del
barocco che (grazie a Deleuze e al suo testo La piega) fanno parte
della nostra visione del tempo. Pongratz e Perbellini sono attratti
dal movimento borrominiano delle superfici concave e convesse
che hanno generato una spazialità che porta il visitatore a interagire
con lo spazio. La superficie quindi non è vista come l’elaborazione
di tessiture complesse quanto lo spazio interattivo di dialogo
con l’osservatore. Entriamo in una nuova prospettiva che vede la
materialità come una sostanza dinamica, mossa da una energia interna,
che aziona cortocircuiti: domande, che attivano nuove stimolazioni
percettive”.
Ma il lavoro di Pongratz e Perbellini come pone in essere un’estetica
digitale del materiale lapideo, riesce allo stesso tempo a farsi
programma a tutto campo. È il caso del recupero della cava “La
grotta” a Verona, dove un uso nuovo della pietra, con una logica,
una estetica e una sensibilità algoritmica, si innesta nella cava abbandonata
e entra in un dialogo affascinante con i nuovi innesti
naturali e vegetali che recuperano il luogo.

Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini continuano oggi a
mantenere lo studio a Verona, ma la loro ricerca sperimentale, didattica
e teorica è tornata, dopo un lustro di attività in Italia, negli
Stati Uniti. Duole dirlo ma vi è uno spazio troppo piccolo in Italia
per una ricerca seria, innovativa addirittura, in un territorio di
grandissima tradizione industriale come quello delle pietre e la
strada dell’emigrazione intellettuale è obbligata. Fare capitelli e
apparati decorativi usando macchine a controllo numerico – come
l’università che ha rifiutato spazio operativo ai nostri due brillanti
architetti – non è avanzamento culturale e scientifico. È un pensare
alla tecnologia come se essa fosse un semplice utensile. Il libro
Cyberstone fa vedere al contrario che la pietra può materializzare
uno spirito, rendere reale un sogno in un processo di progettazione
e costruzione nuovo e intimamente contemporaneo. Questo è
il tipo di ricerca che può schiudere anche economicamente vitali
potenzialità al domani.

Collana e primo capitolo >>

Wednesday, February 11, 2009

Risarcimento terapeutico


prefazione di AS al Libro di Rudolf Klein, Zvi Hecker. Oltre il riconoscibile,  >>

read in (rough) English

Febbraio 1999: due libri della Universale di Architettura si occupano di Berlino. Uno è il numero 47, dedicato alla nuova ala del Museo Ebraico che una lunga fila di persone sotto la neve scopre proprio in quei giorni, l'altro è il numero il 32 dedicato alla Scuola ebraica di Zvi Hecker, che poteva essere visitata solo con l'architetto. E fu una grande gioia.
Febbraio 2000: all'indomani della improvvisa scomparsa del fondatore dell'Universale, nasce l'idea di due monografie sull'opera degli architetti di quei due "Capolavori". Il numero cento di questa collana ha assolto la metà del compito, questo volume scritto con grande precisione, cultura e intelligenza da Rudolf Klein completa l'idea.

L'associazione tra queste due opere però non è solo geografica e cronologica (entrambe sono costruite negli anni intensi della riunificazione), oppure autoriale (sia Hecker che il 15 anni più giovane Daniel Libeskind sono architetti ebrei, polacchi di nascita, formatisi sia in Israele che in altre parti del mondo per approdare nel corso degli anni Novanta a Berlino).
La ragione ancora più profonda del legame credo risieda in due parole: la prima è "risarcimento", la seconda "architettura terapeutica".
Il Museo fa i conti con il passato, non lo esorcizza ma lo rende dilaniantemente presente; la Scuola si misura con il futuro e con un'idea di comunità. Il Museo e la Scuola, insieme a Berlino, danno corpo a un bisogno di ricostruzione che tutta la civiltà occidentale e in particolare quella tedesca devono al popolo ebraico dopo l'Olocausto.

L'architettura dei nostri giorni riesce a operare questa ricostruzione simbolica, questo risarcimento" perché ha finalmente riconquistato la parola.
Superata la fase funzionalista, in cui l'espressione e il messaggio doveva essere tautologico (l'architettura esprimeva il suo stesso funzionamento, il suo stesso essere macchina) l'architettura di oggi può veicolare finalmente anche messaggi complessi, stratificati, assolutamente anti-retorici. I suoi discorsi possono evitare la magniloquenza accademica del potere, o il trionfo del denaro e del mercato, per vibrare anche nelle coscienze e nella storia.

Guardate sotto questa luce all'intero lavoro di Zvi Hecker. Non si tratta mai di sovrapporre a scatole amorfe una pelle pubblicitaria o un insieme di simbolismi fatui. Al contrario si tratta di fare in modo che un'idea simbolica e metaforica permei la spazialità, la struttura organizzativa e distributiva, le relazioni interno-esterno, le fibre stesse dell'edificio. Nella Scuola ebraica è un villaggio che si articola a partire dalla piazza collettiva per disarticolarsi verso il paesaggio, nella Biblioteca Alessandrina è il delta del Nilo che spande il limo della conoscenza, nella Spiral House a Ramat è la crescita organica di un animale-vegetale, negli appartamenti Dubner un'organizzazione cristalliforme, nel Museo Palmach, gli incroci dei percorsi, delle storie e dei popoli. E' una lezione "anti superficiale" che Hecker sviluppa anche con il suo maestro Alfred Neuman (hanno studio insieme sino al 1966) e che Rudolf Klein sottolinea più volte:
"Hecker utilizza sempre referenti geometricamente chiari: cristalli, girasoli, serpenti. Questi referenti rappresentano contemporaneamente i principi spaziali e organizzativi di base, e non un semplice rivestimento esteriore".
L'autore di questo libro, anche attraverso un serrato confronto con l'architetto, compie un excursus mirabile e nuovo anche perché tiene sempre collegata la ricerca specifica di Hecker con il contesto in cui essa si muove. Il lettore avrà modo così di capire a fondo i processi mentali e culturali che hanno portato ai risultati costruiti. Emerge da questo percorso che l'idea del paesaggio in Hecker è come una macrometafora che ingloba le idee più puntuali adottate volta per volta. E si tratta naturalmente di un paesaggio non pacificato, non romanticamente inteso, ma spesso dilaniato e, come nella installazione alla Biennale del 2000, estremamente evocativo.

Eppure questi paesaggi e quindi le architetture di Hecker hanno anche un'altra componente, a lui fortemente propria. Sono, come dire, "Paesaggi terapeutici" perché ci aiutano, senza mai illuderci, a intravedere una strada possibile, una maniera di misurarci con il reale conformandolo ai desideri più profondi. La sua opera ci dà così la speranza che l'architettura in definitiva curi, salvi, redima. Potrebbe essere, come disse nel settembre del 2001 Jaron Lanier, che l'architettura, come l'arte, serva a impedire alle persone di commettere suicidio.

L’Architettura spogliata dei suoi orpelli


di Zvi Hecker Architetto Berlino

L'architetto Zvi Hecker ha preso alcuni giorni fa  una posizione molto decisa sulla crisi economica mondiale ricordandone le responsabilità anche da parte della cultura architettonica contemporanea. Mi ha fornito gentilmente la versione italiana del suo intervento che qui rendiamo pubblica. In questa occasione ricordiamo la Monografia che gli ha dedicato Rudolf Klein nella collana Gli Architetti e riproponiamo anche la Prefazione di as che non è mai stata pubblicata sul web. >>

In German >>


Il progressivo sviluppo della crisi economica a livello mondiale non compromette soltanto il generale benessere di ogni individuo e della società, ma è destinato a produrre uno spostamento radicale della nostra sensibilità estetica.
Colti impreparati dal crollo delle borse e dalla profonda difficoltà in cui versano gli organismi finanziari, non dovremmo però sorprenderci per il sempre più visibile declino etico e morale che ha per primo generato questa crisi economica.
L’erosione dei principi etico - morali causata da una svalutazione della responsabilità personale e dalla sostanziale istituzionalizzazione dell’ingiustizia e ineguaglianza sociale potrebbe rivelarsi più distruttiva di un’azione militare. Le lapidi della Storia rivelano i nomi di svariate potenze militari che hanno fatto la loro comparsa e si sono successivamente eclissate insieme alle loro strutture politiche, talvolta ancor prima che le proprie legioni raggiungessero il campo di battaglia. Ricostruire quei fondamenti etici e morali che sono stati minati nella odierna crisi economica sarà più impegnativo e richiederà più tempo di quanto ne sia occorso per stimolare l’appetito verso il consumismo, sponsorizzato dal capitale e guidato dal principio della paura.
L’Architettura, nel suo interesse per la condizione umana, rappresenta parte integrante del panorama economico. Per questo non può essere separata dalla dimensione etica e morale insita in questa crisi economica, e nemmeno può ritenersi immune nei confronti della recessione economica e dall’affacciarsi di una nuova prospettiva estetica.
Per più di un decennio l’architettura ha risucchiato risorse finanziare, in qualche modo astratte e a buon mercato, destinate ad alimentare un eccesso edilizio, collassato nei mutui sub-prime.
Progetti astratti si sono solidificati in forma Architettonica, e, sponsorizzati dalle borse e dal mercato petrolifero, si sono insediati in ambiti di profonda ingiustizia sociale e si sono sviluppati spesso senza considerazione per il loro impatto ambientale. Il mercato immobiliare, travestito da Architettura, falsamente avvolto da un manto di sostenibilità, si è rivelato un terreno fruttuoso per del capitale in eccesso, assorbendo nelle sue geometrie sempre più contorte, denaro che avrebbe potuto essere investito in altri modi.
Più oscuri e irresponsabili a livello ambientale gli investimenti finanziari, più eccessiva la loro espressione Architettonica. Nella sua versione estrema la sola presenza di una Architettura è diventata la sua una funzione, proprio come la crescita gonfiata del mercato finanziario ha costituito la sua unica raison d’être.
L’Architettura, come del resto il mondo intero, ha voltato lo sguardo dal problema della povertà e dai conflitti del pianeta. Ugualmente indifferente all’etica, l’Architettura ha preferito glorificare la potenza e il fervore dei giochi di prestigio finanziari. Avvolta in strati di orpelli, glamour e ornamentali, ha mascherato la sua genesi narcisistica.
Stranamente questa Architettura autoreferenziale di irrisoria profondità concettuale è stata a lungo considerata l’evidenza dello sfaccettato talento dell’Architetto. Inibito a lungo dell’esprimere il proprio talento, questo esperto intraprendente ha risposto con voracità alle richieste di colonizzazione d’oltreoceano di abbellire regimi repressivi con consunte immagini architettoniche. Ossessionata soltanto dalla massiva visibilità, l’Architettura si è affidata alla visione dell’”Architetto come Artista”, tenuto a rendere conto solo alle proprie inspirazioni e desideri, “Architetto come Designer”, occupato nella creazione di abiti, collezioni di moda, portacenere e borsette da viaggio, “Architetto come Intrattenitore”, che mette in scena spettacoli pseudo intellettuali.
Senza più bisogno di seguire le regole della logica, coerenza e chiarezza dei piani, l’”Architetto come Architetto” è presto diventato irrilevante. Ecco perché negli ultimi anni così pochi progetti veramente innovativi sono apparsi, concernenti il vero cuore dell’Architettura: soluzioni per housing, pianificazione urbana, integrazione degli emarginati sociali, temi che sono stati la base del Movimento Moderno.
Senza motivi per innovare e sperimentare, l’Architetto si è cullato nell’opera di generazioni precedenti, in una forma di parassitismo. Vecchi schemi architettonici e piani rispolverati sono stati tranquillamente riciclati e rivestiti di differenti materiali, il vetro in prima posizione. Per amplificare la sua attrattiva, facciate vetrate sono state pubblicizzate come soluzioni sostenibili e compatibili con l’ambiente. Fortemente dipendenti da processi sofisticati e high-tech nel loro funzionamento e mantenimento, con questi slogan ecologici hanno sfuggito verifiche e opposizioni.
D’altronde, paradossalmente, questa Architettura in vetro ha trovato il suo partner-vittima nel mondo della finanza e del business internazionale. Nel suo appellarsi al valore della trasparenza, l’Architettura in vetro ha provveduto al consenso e ha fornito il miglior alibi per i loschi affari che ha racchiuso così elegantemente. In questa crisi l’alibi del vetro potrebbe non sopravvivere, e rivelarsi insufficiente a recuperare la fiducia persa nelle manovre del commercio.
Anche Berlino, non ancora preda dell’isteria dello sviluppo capitalista, ha alla fine ceduto alle pressioni storiciste, volte alla promozione di una nostalgia architettonica, invece che rivalutare l’eredità del modernismo radicale che la città ha ospitato con orgoglio. La genealogia pseudo aristocratica di Berlino sarà ripristinata nella costruzione della falsa facciata del Berliner Stadtschloss del XVIII secolo. La replica del castello, di non particolare interesse architettonico già all’epoca, diventerà una farsa. È ironico che la Berlino contemporanea non sia in grado di distinguere fra un recupero stilistico e vera originalità, escludendo la possibilità che un eventuale capolavoro venga riconosciuto e accolto favorevolmente.
Essenzialmente, ogni crisi economica non solo apre una rottura con il passato prossimo, ma è l’occasione di un notevole cambiamento, un’opportunità per andare oltre lo status quo e lasciare un’impronta del proprio tempo.
La crisi del `29 e la Grande Depressione che seguì è stata una forte spinta che ha fatto tabula rasa degli ornamenti del classicismo di tardo ‘800. Bianca, semplice, senza decorazioni, l’Architettura che ne risultò fu una chiara rottura con il passato e una totale negazione con ciò che andava a sostituire.
Le radici basilari di queste due crisi, nonostante gli 80 anni che le separano, germinano da un terreno contaminato dalla disonestà in cui le istituzioni finanziarie sono cadute.
Sarà necessario un approccio etico-morale per rimettere in moto la creatività messa a tacere da questa decadenza generale. Seguirà un cambiamento della nostra percezione estetica.
L’inevitabile rallentamento dell’edilizia e l’apparire di un diverso approccio estetico costituiranno un terreno fertile per la nascita di idee nuove. Queste saranno pensate, sviluppate e codificate, proprio come note musicali, per mezzo dei disegni architettonici, costruite anni più tardi, quando l’economia si risolleverà.
La forma architettonica è l’immagine riflessa dell’idea che è insita nella pianta. La gerarchia della scala umana è la sua misura, e la chiarezza delle intenzioni è la sua bellezza. Unisce necessità e sogni in sensibilità estetiche sempre nuove. Questo dualismo inseparabile è ciò che fa dell’Architettura un mestiere così profondo.
Secoli di dedizione creativa e il manifestarsi di nuove idee hanno generato una ricca tradizione architettonica. Questa eredità è consegnata a noi a condizione che la nostra generazione la arricchisca e ne allarghi gli orizzonti.
Nel nostro mondo in continuo mutamento, l’eterno valore dell’Architettura risiede nel suo insito idealismo e nella sua responsabilità nell’alleviare l’essenza della condizione umana. Nuove idee sono il solo strumento adatto a questo scopo.
Architecture is a human art, never humane enough.

Zvi Hecker
Gennaio 2009
(Tradotto dall’inglese da Marco Capitanio) 

Tuesday, February 10, 2009

Vernadasky + Buckminster Fuller = Allen’s Biosphere2



Il testo Italiano Segue.


Pioneers of Green Architecture.
Vernadasky + Buckminster Fuller = John Allen’s Biosphere2

Biosphere 2 is a 3.14-acre (12,700 m2)[1] structure originally built to be an artificial, materially-closed ecological system in Oracle, Arizona (USA) by Space Biosphere Ventures, a joint venture whose principal officers were John P. Allen, inventor and Executive Director, and Margret Augustine, CEO. Constructed between 1987 and 1991, it was used to explore the complex web of interactions within life systems in a structure that included five areas based on natural biomes and an agricultural area and human living/working space to study the interactions between humans, farming and technology with the rest of nature.[2] It also explored the possible use of closed biospheres in space colonization, and allowed the study and manipulation of a biosphere without harming Earth's. The name comes from Earth's biosphere, Biosphere 1. Earth's life system is the only biosphere currently known. Funding for the project came primarily from the joint venture's financial partner, Ed Bass' Decisions Investment, and cost $200 million from 1985 to 2007, including land, support research greenhouses, test module and staff facilities.
From: http://en.wikipedia.org/wiki/Biosphere_2
The term “synergy” has often been abused for some time now -  everything has become synergic. 
And quite rightly, though not entirely, the purists say: “Enough of this synergy, of this synergic, of this-oh no!- synergically.” 
If you don't like the term synergy, you could call it “biological mathematics”  but the concept remains and has to be understood once and for all because it is the key to many “elevated” human activities. So this biological mathematics (the neologism isn’t bad) says that 1+1 isn’t 2 at all, as in algebra. It can be zero, or -1 or it can be 3 or 4 or 5!
Among other things we should have learned at school is that if you take one of Newton’s apples and then take another one from the same supreme British physicist’s tree, you get two apples. 
But, if you take two hydrogen molecules and one oxygen molecule, then voilà, you’ve got water and, as a consequence, many other things present in our biosphere! 
What does this mean? It means that the sum of elements in this biological mathematics creates multiple effects which can have, in some fortunate cases, exponential results. 
I have looked for a shining example of this approach and there could be none better than that of the inventor of Biosphere2, John Allen (whom I consider both a very dear friend and mentor). Allen is a likely candidate because by 1971 he was already calling his ranch in Santa Fe, New Mexico,  Synergia Ranch
It was his vision of life and also a homage to the chapter “Synergy” dedicated to the subject by R. Buckminster Fuller in his coeval volume Operating Manual for Spaceship Earth
Bucky Fuller is a nineteenth century inventor and thinker in the best sense of the term! He is one of the great American transcendentalists (like Emerson, Whitman and Frank Lloyd Wright). 

                
Richard BR. Buckminster “Bucky” Fuller (July 12, 1895 – July 1, 1983)[1] was an American engineer, systems theorist, author, designer, inventor, and futurist.
Fuller published more than 30 books, inventing and popularizing terms such as "Spaceship Earth", ephemeralization, and synergetics. He also developed numerous inventions, mainly architectural designs, the best known of which is the geodesic dome. Carbon molecules known as fullerenes were later named by scientists for their resemblance to geodesic spheres.
From: http://en.wikipedia.org/wiki/Richard_Buckminster_Fuller
John Allen put together the operative, profound, revolutionary, non-conformist,  holistic thought of Bucky and his own geodetic technique with a philosophy stemming from a far away and, in fact, politically opposed culture during the era of the USA-USSR cold war. This meld concerned the studies of Vladimir Vernadsky, a Russian scientist who achieved cosmic reasoning and who saw geological, biological, atmospheric and human phenomena as an interacting whole of forces and forms. 
He did not do this in a short essay, but in a series of important edited writings as president of the Science Academy of Ukraine. 

Vladimir Ivanovich Vernadsky (Russian: Влади́мир Ива́нович Верна́дский, Ukrainian: Володимир Іванович Вернадський; 12 March [O.S. 28 February] 1863 – 6 January 1945) was a Russian/Ukrainian and Soviet mineralogist and geochemist who is considered one of the founders of geochemistry, biogeochemistry, and of radiogeology.[1] His ideas of noosphere were an important contribution to Russian cosmism. He also worked in Ukraine where he founded the National Academy of Science of Ukraine. He is most noted for his 1926 book The Biosphere in which he inadvertently worked to popularize Eduard Suess’ 1885 term biosphere, by hypothesizing that life is the geological force that shapes the earth. In 1943 he was awarded the Stalin Prize.
From: http://en.wikipedia.org/wiki/Vladimir_Vernadsky 
John Allen invented the incredible equation Vernadsky+Fuller and this invention was the basis of his prodigious project: Biosphere 2.
At the core of this project (the subject of which public discussions were held with its inventor twice recently in Rome) there was the ingenious intuition that the idea of the biosphere as promulgated by Vernadsky could be combined with the ecological observation and technical inventions of Fuller.
Biosphere2 was thus built in 1991 at Oracle in the desert near Tucson, Arizona, and still affirms itself as an extraordinary work of both engineering and ecological science, one of the most important of its kind. Allen, assisted by a team of numerous consultants, of whom the architects Margaret Augustine, Phil Hawes and the engineer William Dempster should especially be remembered, so realised a project according to the image and likeness of the terrestrial biosphere that an interacting whole of geological, ecological and human forces formed of seven biomes (ecologically balanced systems) could serve to study systematic phenomenon.
Biosphere2 was based on these dynamically balanced systems where carefully studied percentages of plants, microbes, water, animals and air were in a cycle of continuous regeneration. Through complex research with several experts specialising in different areas, the seven biomes were thus determined (from the Amazon forest to the Great Coral Reef, from the anthropologic Mediterranean environment to the same ocean’s marine environment) all housed within great glass panelled surfaces which covered an area of more than a hectare. Living and relaxation areas and laboratories were also integrated into the structure.
The experiment allowed, among other things, the patenting of various systems and technologies that brought up to 100% the recycling of water, human and animal waste as well as the autonomous generation of food and a minimum loss of air inside the great closed environment. 
Eight scientists, including Mark Nelson and Ray Walford, lived sealed up in this environment for two years, experimenting with its efficiency.
After this period, Biosphere2 was conceded to Columbia University and then to the University of Arizona which modified its structure. Nonetheless, this extraordinary event marked the basis of a possible systematic development of architecture, an architecture that need not necessarily be connected to infrastructural networks but is autonomous with regard to its own vital and energetic cycle. 
An important source of study on this question is described in Allen’s new book, Me and the Biospheres. A Memoir by the Inventor of Biosphere2 (Synergetic Press, Santa Fe, 2009), which provides the opportunity to follow in detail the history and conquests of this and other of Allen's projects.  There are few architects and engineers, I’m sure, who know what I’m talking about, but thanks to the Web and Wikipedia in particular, in-depth information is available to all. Lastly: this article was written on returning from a research period with the computer scientist Sergio Crochik and Allen himself.
The idea of the Vernadsky and Fuller “synergic” combination was born out of a discussion with Sergio himself and most certainly, without all those hours of work spent together it would never have got so far.
                  
John Polk Allen (born 6 May 1929, Carnegie, Oklahoma)[1] is a systems ecologist and engineer, metallurgist, adventurer and writer.[2] He is best known as the inventor and Director of Research of Biosphere 2, the world's largest laboratory of global ecology, and was the founder of Synergia Ranch. Allen is a proponent of the science of biospherics.
Allen currently serves as Chairman of Global Ecotechnics, and a director of Biospheric Design and of Institute of Ecotechnics. He is Fellow of the Royal Geographical Society, the Linnean Society, and the Explorers Club.
In the early sixties, John Allen worked on regional development projects with David Lillienthal’s Development Resources Corporation in the U.S., Iran, and Ivory Coast where he became an expert in complex regional development. Before that he headed a special metals team at Allegheny-Ludium Steel Corporation which developed over thirty alloys to product status. He has led expeditions studying ecology, particularly the ecology of early civilizations: Nigeria, Iraq, Iran, Afghanistan, Uzbekistan, Tibet, Turkey, India, and the Altiplano.
He studied anthropology and history at Northwestern, Stanford, and Oklahoma Universities, and served in the U.S. Army’s Engineering Corps as a machinist. He graduated from Colorado School of Mines and received an MBA with High Distinction from the Harvard Business School. In the early 1960s, Allen headed a special metals team at Allegheny-Ludlum Steel Corporation which developed over thirty alloys to product status, then he worked with David Lillienthal’s Development Resources Corporation in the U.S., Iran, and Ivory Coast.
Under the pen name, Johnny Dolphin, he has chronicled his personal history alongside the social history of his many destinations in novels, poetry, short stories and plays.[3
http://en.wikipedia.org/wiki/John_P._Allen





Synergia
Spesso si abusa del termine sinergia. Da un poco di tempo tutto è diventato sinergico. E abbastanza giustamente, ma non del tutto, i puristi dicono, “ma basta con questa sinergia, con questo sinergico, con questo - oddio ! - sinergicamente”.
Possiamo anche chiamarla “matematica biologica” se non ci piace sinergia, ma il concetto rimane e deve essere compreso per bene. Perché è la chiave di molte “alte” attività umane. Dunque questa matematica biologica (il neologismo non è male!), dice che 1+1 non fa affatto 2, come nella matematica algebrica. Ma può fare zero, oppure -1 oppure può fare tre o quattro o cinque!. A scuola, per altro, lo avremmo dovuto imparare: se prendo una mela di Newton e un’altra mela sempre dallo stesso albero del sommo fisico britannico ricavo “2” mele. Ma se prendo due molecole di idrogeno e una molecola di ossigeno..voilà ...ho creato l’acqua e di conseguenza molte altre cose nella nostra biosfera! Che vuol dire questo?. Vuol dire che la somma degli elementi in questa matematica biologica crea degli effetti moltiplicativi che possono avere, in alcuni casi fortunati, esiti esponenziali.

Ho cercato un esempio fulgido di questo approccio. E non me ne è venuto nessuno di meglio che quello di Biosphere 2 e del suo inventore John Allen (che per fortuna è anche un carissimo amico e maestro). Allen potrebbe essere chiamato in causa perché già nel 1971 chiamò il suo ranch a Santa Fe in New Mexico “Synergia ranch”. Era un progetto di vita ed anche un omaggio al capitolo “Synergy” dedicato alla questione da Richard Buckminster Fuller nel suo coevo volume Operating Manual for Spaceship Earth. Bucky è un inventore e pensatore ottocentesco! E in senso buono! E’ uno dei grandi pensatori trascendentalisti americani (come Emerson, Whitman e anche, in fondo, lo stesso FL Wright)




Ora John Allen ha messo insieme il pensiero operativo, profondo, rivoluzionario, anti corrente e olistico di Bucky e la sua stessa tecnica geodetica con un pensiero che arriva da una cultura lontana. Anzi, ai tempi dei blocchi Usa-Urss, una cultura politicamente opposta. Si tratta degli studi di Vladimir Vernadsky e cioè di uno scienziato russo che compie un ragionamento cosmico e che vede i fenomeni geologici, biologici, atmosferici e umani come un insieme interagente di forze e forme. E non lo fa in un breve saggio, ma in una serie di importanti scritti redatti come presidente dell’Accademia di scienze dell’Ucraina.

John Allen inventa l’incredibile equazione Vernadsky + Fuller e questa invenzione è alla base del suo più prodigioso progetto: Biosphere 2. Alla base questo progetto (di cui abbiamo discusso pubblicamente con il suo inventore in due occasioni recenti a Roma - audio, film etc. >) c’è l’intuizione geniale che l’idea di biosfera promossa da Vernadsky si possa combinare con la riflessione ecologica e le invenzioni tecniche di Fuller. Biosphere 2 si realizza così ad Oracle nel deserto vicino a Tucson, Arizona nel 1991 e si afferma come una straordinaria opera di ingegneria e di scienza ecologica ad un tempo, tra le più importanti in questo settore. Allen, coaudivato da una squadra numerosa di consulenti, di cui bisogna ricordare almeno l’architetto Margaret Augustine, l'architetto Phil Hawes e l’ingegnere William Dempster, realizza così un progetto a immagine e somiglianza della biosfera terrestre: un insieme interagente di forze geologiche, ecologiche e umane che servono a studiare fenomeni sistemici. 

Biosphere 2 si basa sulla creazione di diversi ambienti terrestri dove ben studiate percentuali di piante, microbi, acqua, animali e aria sono in un ciclo di continua rigenerazione. Attraverso una complessa ricerca con decine di esperti nei diversi settori, si determinano più specificatamente sette biomi (dalla foresta amazzonica, alle barriere coralline, dagli ambienti antropizzati mediterranei allo stesso ambiente marino dell’Oceano ) ospitati all’interno di grandi superfici vetrate e sigillate che coprono oltre un ettaro di superficie. Inoltre spazi di vita, relax, laboratori sono inseriti e parte integrante della struttura. L’esperimento consente tra l’altro di brevettare vari sistemi e tecnologie che portano al 100% di riciclo dell’acqua, dei resti umani e animali, alla autonoma generazione di cibo e a minime perdite di aria all’interno del grande ambiente chiuso.
Otto scienziati, tra cui Mark Nelson e Ray Walford vivono sigillati in questo ambiente per due anni provandone l’efficacia sperimentalmente. Successivamente Biosphere 2 viene ceduto alla Columbia University e poi alla Università dell’Arizona che ne modificheranno la struttura, ma questa straordinaria vicenda segna le basi di un possibile sviluppo sistemico dell’architettura, verso una architettura non più necessariamente collegata a reti infrastrutturali, ma autonoma dal punto di vista del proprio ciclo vitale ed energetico.

Una fonte importante di studio su questa vicenda è nel nuovo libro di Allen Me and the Biospheres, Memoir by the Inventor of Biosphere 2 (Synergetic press, Santa Fe 2009), un libro che offre la possibilità di ripercorrere nei dettagli la storia e le conquiste di questo come di altri progetti di Allen.
Pochi, ne sono sicuro, tra gli architetti e gli ingegneri sanno quello di cui sto parlando, ma grazie al web, e in particolare a Wikipedia gli approfondimenti sono alla portata di tutti. Infine: questo articolo è stato scritto di ritorno da un periodo di ricerca con Sergio Crochik, informatico e con lo stesso Allen. L’idea della combinazione “sinergica” di Veradasky e Fuller è nata proprio discutendo con Sergio e sicuramente senza le ore di lavoro passate insieme non sarebbe mai arrivata sino a qui.


Questo articolo rappresenta una parziale anticipazione del testo "Sinergia" che è apparso nel numero 30 della rivista "L'Architetto Italiano" editore Mancosu all'interno del supplmento "On&Off". una altra versione è apparsa in questo volume

Friday, February 06, 2009

Settembre 2008 a Venezia



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Nella seconda settimana del mese di settembre, la città di Venezia è stata caratterizzata da due fatti importanti che hanno interessato il mondo dell’architettura. Il primo ha riguardato l’inaugurazione del ponte pedonale che collega Piazzale Roma alla stazione ferroviaria. La realizzazione ha generato l’entusiasmo dei cittadini perché la nuova architettura, oltre ad essere molto bella, ha un naturale potere energizzante, dà fiducia. Certo nella città di Morte a Venezia non bisogna esagerare con segni di entusiasmo giovanile, ma neanche è possibile continuare a gettare in laguna una serie di opere geniali come è successo in questo dopoguerra (Le Corbusier, Kahn, Wright); per non citare la deprimente e più recente vicenda del progetto di Eric Miralles per l’Istituto di Architettura abbandonato dallo stesso committente. Ora, dove questi architetti hanno fallito, Santiago Calatrava ha vinto. Il ponte c’è: interessa, funziona, crea dibattito, oltre ad essere, come dicevamo, riuscito esteticamente. Ma, la cosa veramente particolare è che l’opinione pubblica che si interessa a questo episodio della propria città non ne ritrovi alcun eco alla Biennale che contemporaneamente si è aperta ai Giardini. 

Si tratta infatti di una mostra che del Ponte a Piazzale Roma vuole essere, programmaticamente, l’esatto contrario. E che questa non sia una opinione è confermato dal fatto che Santiago Calatrava alla Biennale non è stato neppure invitato. Ecco allora che i due importanti avvenimenti architettonici del settembre veneziano vivono talmente distanti e separati che sembrano riguardare due sfere completamente distinte di operatività. Cosa che ovviamente non è e non dovrebbe essere. Out There. Architecture Beyond Building (il titolo della XI Biennale) intende sottolineare che l’architettura è una disciplina intellettuale, appartiene al mondo dell’elaborazione culturale. L’architettura è soltanto “episodicamente” costruzione e opera sociale, il suo orizzonte è quello delle idee. Voi penserete a questo punto che chi scrive sia molto critico su questa Biennale e che si unisca al coro, numerosissimo per altro, di denigratori. Non è affatto così, e veniamo alle ragioni per cui questa Biennale è comunque da acquisire, pur nell’astrazione programmatica di cui dicevamo, positivamente. Innanzitutto il rischio che le passate edizioni avevano corso era quello della lottizzazione (a ciascun curatore o sottocuratore un pezzo distinto spesso in contraddizione l’uno con l’altro) assecondando la trasformazione di un episodio di alta cultura in baraccone politico. Il rischio nella precedente Biennale in particolare era stato ben presente e ne avevamo scritto su queste pagine («L’architetto italiano» n. 16). 

Ora il ritorno alla Biennale di Paolo Baratta come presidente ha evitato questa pericolosa deriva. Baratta ha affidato (come fece con Fuksas e con meno successo il biennio successivo con Sudic) tutta la macchina espositiva a un solo curatore, senza concedere spazio a sottomostre autonome. Aaron Betsky a questo punto ha tenuto strettamente in pugno l’intera mostra sia nelle parti da lui direttamente firmate, sia in quelle affidate a collaboratori che l’hanno supportato organizzativamente lasciando ovviamente a lui le scelte decisive. Nel complesso così l’XI Biennale segna un ritorno a una impostazione fortemente curatoriale, e ciò è positivo. Vi è d’aggiungere che alcune sue parti sono molto buone. Cominciamo con dei suggerimenti. I premi della Biennale sono come troppo spesso i concorsi in Italia, una pratica laboriosa che serve solo a santificare con un giudizio “ufficiale” quello che è ovvio a priori, considerato la rete di amicizia tra curatore, giudici e premiati. Vista la fraterna relazione pluridecennale tra il critico J. Kipnis e G. Lynn, a chi poteva andare il premio come miglior allestimento in Arsenale? Ingenuo lo sconcerto di chi ne cerca ragioni di sostanza. Visto che Betsky è legato sin da ragazzo a Gehry, a chi poteva andare il Leone alla carriera se non a Gehry? Si diano i premi invece con un sistema democratico: siamo nel 2008! Invece di fare stelline alle entrate o gli ennesimi concorsi on-line si usi l’information technology per il suo potere democratico contro questi sistemi di giurie feudali. 

Forti dubbi crea anche la mostra Uneternal Rome. Ne ho scritto in altra sede («l’ARCA» settembre 2008) e non mi dilungo. Per Betsky Roma è associabile a qualunque altra città perché presenta fenomeni di sprawl urbano comuni ad altre metropoli. Essa infatti è dichiarata sin dal titolo uneternal. Ora questa tesi segna l’esatto contrario di quello che chi studia Roma sostiene da anni e cioè che Roma abbia caratteri assolutamente forti e originali e sia compito degli architetti contemporanei capirli e lavorarvi in maniera costruttiva. Gli architetti invitati oscillano tra le due posizioni e la mostra nel complesso colpisce come un caleidoscopio con scarso costrutto. Non coraggiosa abbastanza è la mostra Experimental Architecture. Una mostra che aveva senso per individuare le vere novità, non per accontentare alcuni architetti certamente molto bravi (Boeri, Ian+ Ma0, Mirti e altri) a cui non si poteva dare uno spazio importante (cioè una delle grandi installazioni all’Arsenale). Era meglio cercare veramente il nuovo in giro, cosa invece che è stato fatto veramente troppo poco. Decisamente buona in questa Biennale è invece la sezione all’Arsenale (la più importante e decisiva per altro) in cui 23 architetti hanno compiuto una vera installazione abitabile e completamente nuova, senza i patetici ricicli di scorse edizioni. Tra le 23 top installazioni vi sono Penezic & Rogina di cui ci siamo occupati in queste pagine (n. 16) e molte altre installazioni bellissime, secondo me, come quella di UN studio, di Coop Himmenb(l)au, di Frank Gehry, di Atelier Bow-Wow e altre ancora. Cerebrali e deludenti le star Diller & Scofidio e Fuksas questa volta, e veramente evanescente Philppe Rahm. Altri fatti importanti e in genere riusciti di questa Biennale riguardano la partecipazione molto qualificata e certamente ben coordinata da Betsky dei padiglioni nazionali (tra cui una mostra a cura di Per Olaf Fjeld su Sverre Fehn e una meravigliosa su Utzon ordinata dal Louisiana Museum of Art, una bella e come dire leonardesca su Scarpa nel Padiglione Venezia). Infine da segnalare la mostra grafica, pittorica e architettonica ad un tempo di Zaha Hadid che secondo me vale da sola il biglietto. Originalissimo e di grande successo il video (I. Bêka e L. Lemoine) dedicato alla casa di Koolhaas a Bordeaux, ma vista dal punto di vista della cameriera. Una risposta che inverte genialmente i termini della questione posta dal curatore. Architettura oltre l’edificio non perché si cerchi un’architettura più astratta, celebrale e intellettuale, ma al contrario per calarci in una dimensione più reale, più concreta, quasi iper-realistica. Un’architettura vista da chi guarda allo spazio con il proprio bagaglio di necessità. Ma non è questa proprio l’essenza di ogni sapere di spazio?


"L'arvhitetto Italiano" n. 28-29 Vai all'ultimo "ON&OFF" in PDF che, oltre a questo articoloj contiene: In principio era la terra sugli sviluppi innovativi della ceramica di Moccia, News di Ruotolo, Le regole del gioco di Munari di Bartolozzi, Territorio Infrastruttura Architettura; Una dinmensione integrata di Marotta, La memoria dei sensi Nuovi "cunti" per i borghi abbandonati di Angelini.